jueves, 24 de marzo de 2016

Pace in Colombia, appuntamento mancato o rimandato?

La firma della pace tra il governo e le Farc era attesa per il 23 marzo. Ma bisognerà avere ancora pazienza. A Cuba, sede dei negoziati, si affronta la delicata questione della smilitarizzazione della guerriglia. L’ultimo dei nodi ancora da sciogliere, anche se il cammino percorso è stato veramente lungo


La data della firma dello storico accordo tra il governo della Colombia e la guerriglia delle Farc era stata fissata per il 23 marzo, cioè ieri. Ma la giornata è trascorsa nel silenzio generale. Forse la sorpresa (o la delusione) è stata maggiore all’estero che nel Paese. Infatti, era ormai un segreto di Pulcinella che l’accordo di pace sarebbe slittato, l’80% dei colombiani dubitava che la data sarebbe stata rispettata. Cosa è successo? 

In realtà esistevano due letture dell’annuncio dato a settembre, con inclusa stretta di mano del presidente Juan Manuel Santos e il leader delle Farc, il famoso Timochenko, nel quale si stabiliva un termine perentorio di 6 mesi per mettere la parola fine al conflitto armato. Per il governo, i 6 mesi si contavano a partire da settembre ma per le Farc si contavano a partire dalla definizione della questione della giustizia transizionale durante il processo di pacificazione, accordo siglato a metà dicembre. Pertanto, per la guerriglia, la firma dell’accordo è da prevedersi per la metà di giugno. 

Che, ad ogni modo, non si sarebbe giunti a tempo per marzo, era chiaro anche a Santos che ha recentamente dichiarato che preferiva postiticipare la firma piuttosto che accettare un patto insoddisfacente.
Ma se ormai tutti i punti dell’agenda sono stati affrontati, cosa si sta negoziando a Cuba? In realtà, va definito nei dettagli l’ultimo punto: la smilitarizzazione delle Farc e la consegna delle armi. La guerriglia non parla mai di disarmo, ma di lasciare le armi. Cioè depositarle in alcuni arsenali sotto la supervisione, già assicurata, dell’Onu. Perché? Il problema è che esiste l’esperienza storica di un massacro di un gruppo sovversivo in passato, dopo aver siglato la fine dello scontro armato. I guerriglieri allora depositerebbero le armi e si concentreranno in alcune aree e le stesse forze armate, fino ad oggi loro nemiche, dovranno garantire loro che non ci saranno rappresaglie e vendette. Per tale ragione, il governo desidera che le aree di concentramento non siano più di una diecina (anche per stabilire il principio che il gruppo smette di controlare territori), mentre le Farc preferiscono che siano le zone dove oggi sono dislocare le loro unità: aree conosciute e dove esistono reti di collaboratori in caso di necessità. Siamo dunque in una fase chiave dove occorre contare sulla reciproca fiducia: chi lascia le armi deve credere che sarà protetto e chi protegge deve credere che le armi sono state lasciate. 

Nessun accordo di pace è facile. Lascerà sempre alcuni insoddisfatti. Ed è impossibile che non sia così. D’altra parte, Farc e governo hanno percorso un lungo cammino: hanno definito la questione della riforma agraria (in Colombia esiste una spaventosa concentrazione delle terre coltivate), lavorano assieme nello sminamento di varie zone, hanno chiarito la questione del narcotraffico da affrontare, hanno messo in moto una commissione che renda pubbliche le ragioni storiche del conflitto, hanno stabilito criteri per le riparazioni a beneficio di quanto hanno perso i loro beni, hanno stabilito criteri di giustizia transizionale per punire i crimini di guerra, e hanno messo le basi per l’inserimento politico delle Farc nella politica nazionale... Pare dunque difficile che non si giunga a una pace definitiva, come non mai a portata di mano.

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