Il presidente brasiliano è stato criticato per non aver stigmatizzato la precaria situazione dei diritti umani a Cuba. Le sue ragioni.
Chi ha criticato il presidente del Brasile, Inacio Lula da Silva, ha ragione: avrebbe potuto, e non l'ha fatto, esprimere un giudizio critico in merito alla morte di un oppositore del regime cubano imprigionato da tempo e che le autorità hanno semplicemente lasciato andare durante il suo sciopero della fame. Il che getta un velo di dubbi sulla recente apparizione sullo scenario internazionale del presidente brasiliano in qualità di nuovo e affermato leader. Perché è pur vero che dal rappresentante di un Paese emblema di un Terzo Mondo da sempre emarginato, sfruttato e sottomesso, ci si aspetterebbe una parola nuova e più consona ai valori da sempre sostenuti di giustizia e di solidarietà, con un po’ meno di realpolitik. Lo stesso Lula non avrebbe certo taciuto in quanto dirigente del Partito dei lavoratori, il suo, se un altro presidente brasiliano al suo posto avesse taciuto.
Ma se andiamo un po' più in profondità nella questione dei diritti umani e nella denuncia permanente, mai sufficiente, della loro violazione, allora ci vogliono altre considerazioni. Perché sia chiaro che su questo tema è anche importante stabilire da chi viene la critica. Dall'Europa? In tal caso l'Europa dovrebbe emettere un comunicato alla settimana in merito ai diritti umani ad esempio in Turchia, Paese col quale è in marcia di avvicinamento da tempo, dove la tortura e il sopruso sono ancora di casa. Cito in merito il rapporto del 2009 di Amnesty International che segnala: «Sono aumentate le segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti, mentre le voci del dissenso hanno subito persecuzioni e intimidazioni».
Oppure sarebbe il caso di un deciso intervento in appoggio alla magistratura italiana che indaga su un migliaio di voli “clandestini” con presunti terroristi sequestrati e trasportati in carceri dove sono poi stati torturati, in Polonia, Romania, Ucraina e – sembra – anche in Uzbekistan, stando a fonti autorevoli. Per intenderci, hanno subito quelle vessazioni che l'amministrazione di George W. Bush ha preteso addirittura di legalizzare. E già che parliamo di Cuba, possiamo dimenticare l'enclave militare statunitense nell'isola caraibica, chiamata Guantanamo? Dove vengono ancora mantenuti sotto sequestro più di 700 presunti terroristi, in una sorta di terra di nessuno giuridica, senza che ancora si sappia cosa sarà di loro. In America Latina una situazione del genere evoca il caso dei desaparecidos. Li ricordate?
È recente la notizia diffusa dal Times che l'allora presidente Bush e il suo vice Cheney erano al corrente che a Guantanamo erano finiti centinaia di innocenti: ma per non danneggiare l'immagine della guerra globale contro il terrorismo hanno taciuto e mantenuto in prigionia queste persone, tra i 12 ed i 93 anni. Il capo del personale dell'ex segretario di Stato Colin Powell, Laurence Wilkerson, ha rivelato che Bush e Cheney sapevano che gran parte dei 742 sequestrati non solo erano estranei ai fatti, ma che molti erano stati ceduti da Pakistan e Afghanistan per somme fino a 5 mila dollari: in altre parole il Pentagono, pur di dimostrare che la guerra contro il terrorismo era veramente in atto, ha letteralmente “comprato” prigionieri. Wilkerson lasciò il governo Bush, come anche il suo ex superiore Powell, precisamente dopo aver scoperto quante falsità nasconde la guerra globale contro il terrorismo, fonte, non dimentichiamolo, di enormi violazioni dei diritti umani.
Ovviamente, una cosa non esclude l'altra. Il regime cubano non è democratico e l'opposizione in quel Paese non ha vita facile. Tutt'altro. E questo va detto. Ma va anche detto che è forse peggio ancora quando certe violazioni sono denunciate ed altre no, quando esiste un doppio standard in questi criteri. Ed è ancor più drammatico che certi soprusi vengano commessi da Paesi democratici, con in più la pretesa di dar ad altri lezioni di democrazia. La prudenza europea nei confronti di alcuni Paesi – abbiamo citato la Turchia – è anche frutto di un processo diplomatico lento, paziente e delicato di inclusione di queste nazioni nel contesto internazionale, che porterà indubbi benefici dal punto di visto del progresso della democrazia. E ciò ci fa comprendere le ragioni di certi silenzi. Non tutto è opportunismo e la diplomazia suggerisce che il senso dell'opportunità (che è altra cosa) può a volte giovare molto più della denuncia ad ogni costo. È il classico cucchiaino di miele, che prende più mosche di un barile di aceto. Ed è chiaro che anche Lula, a capo della migliore diplomazia dell'America latina, conosca molto bene questo detto.
Pubblicato su Cittá Nuova
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