Brasile sesta potenza
economica mondiale, ma senza dimenticare distribuzione del reddito e
interventi a favore dei settori più deboli
Quando nel 2002 Luiz Inacio Lula da Silva vinse le elezioni
presidenziali, “l’indice di rischio Paese”, strumento col quale si
misura l’affidabilità di una economia nel far fronte ai propri debiti
(un po’ come oggi lo spread), schizzò in alto, raddoppiando. Vennero
vaticinati cataclismi finanziari, immani tragedie economiche che
avrebbero fatto piombare il Brasile nell’abisso e nella sovietizzazione
della sua economia.
I mercati finanziari, quando si tratta dei propri esosi interessi,
sono conservatori, pessimisti e spesso, troppo spesso, inattendibili
Cassandre, perché sordi e ciechi. Infatti, dopo dieci anni di gestione
Lula – ed oggi sotto la presidenza di Dilma Roussef, in linea di
continuità con quella del vecchio sindacalista – secondo l’istituto di
ricerca britannico Cebr il Brasile é gia la sesta economia del pianeta,
dopo aver scalzato Italia e Gran Bretagna, con un Pil di 2.400 miliardi
di dollari.
Un risultato notevole: durante l’ultima decade sono stati creati 15
milioni di posti di lavoro, 28 milioni di cittadini sono usciti dalla
povertà e la metà dei 190 milioni di abitanti appartiene oggi alla
classe media. Quest’ultimo dato è in assoluta controtendenza, dato che
quasi ovunque é proprio la classe media il settore che si assottiglia
sempre più. Nel frattempo il governo brasiliano va avanti con il piano
di investimenti, fino al 2014, per 526 miliardi di dollari in
infrastrutture, istruzione, reti di distribuzione energetica, edilizia
popolare.
La ricetta che oggi nessuno si sente più di giudicare come
populista é molto semplice e centralizza la ridistribuzione del reddito e
l’intervento a favore dei settori più deboli, pur appoggiando la
crescita economica, la libertà di impresa e il maggiore rigore fiscale
possibile. Forse il punto di forza di questa riuscita – che non é
perfetta, sia ben chiaro –, è il “fattore fiducia”, così necessario alla
salute di una economia, forse il piú importante in questo Paese che
cresce senza dimenticare che é bene assicurare il benessere di tutti e
non solo di alcuni.
Dopo la Cina, al secondo posto del ranking, anche il Brasile
sarebbe dunque in grado di far parte del G8 e, se le cose continuano
così, per il 2020 anche l’India entrerà a dar parte delle prime economie
del pianeta. Questi eventi indicano che i tempi sono mutati e, come nel
caso della anacronistica integrazione del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite che ancora risponde a schemi politici dell’immediato
dopoguerra, la comunità internazionale é oggi chiamata ad adeguare gli
strumenti e gli ambiti nei quali prendere le decisioni di portata
globale.
Se ciò avvenisse con criteri di maggiore democraticità, anziché in
base ai rapporti di forza, sarebbe meglio. Di per sé, le dimensioni
economiche non dovrebbero essere l’unico requisito, così come nel G8 a
suo tempo l’inclusione della Russia rispose più a criteri politici che
economici.
In tal senso, India, Sudafrica, Nigeria, Indonesia e Messico
potrebbero dunque cominciare ad essere presi in maggiore considerazione.
Lo dice una mutata realtà, e la politica non può non tenerne conto.
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