martes, 10 de enero de 2012

Il fattore fiducia

 Brasile sesta potenza economica mondiale, ma senza dimenticare distribuzione del reddito e interventi a favore dei settori più deboli 
 
Quando nel 2002 Luiz Inacio Lula da Silva vinse le elezioni presidenziali, “l’indice di rischio Paese”, strumento col quale si misura l’affidabilità di una economia nel far fronte ai propri debiti (un po’ come oggi lo spread), schizzò in alto, raddoppiando. Vennero vaticinati cataclismi finanziari, immani tragedie economiche che avrebbero fatto piombare il Brasile nell’abisso e nella sovietizzazione della sua economia.
I mercati finanziari, quando si tratta dei propri esosi interessi, sono conservatori, pessimisti e spesso, troppo spesso, inattendibili Cassandre, perché sordi e ciechi. Infatti, dopo dieci anni di gestione Lula – ed oggi sotto la presidenza di Dilma Roussef, in linea di continuità con quella del vecchio sindacalista – secondo l’istituto di ricerca britannico Cebr il Brasile é gia la sesta economia del pianeta, dopo aver scalzato Italia e Gran Bretagna, con un Pil di 2.400 miliardi di dollari.
Un risultato notevole: durante l’ultima decade sono stati creati 15 milioni di posti di lavoro, 28 milioni di cittadini sono usciti dalla povertà e la metà dei 190 milioni di abitanti appartiene oggi alla classe media. Quest’ultimo dato è in assoluta controtendenza, dato che quasi ovunque é proprio la classe media il settore che si assottiglia sempre più. Nel frattempo il governo brasiliano va avanti con il piano di investimenti, fino al 2014, per 526 miliardi di dollari in infrastrutture, istruzione, reti di distribuzione energetica, edilizia popolare.
La ricetta che oggi nessuno si sente più di giudicare come populista é molto semplice e centralizza la ridistribuzione del reddito e l’intervento a favore dei settori più deboli, pur appoggiando la crescita economica, la libertà di impresa e il maggiore rigore fiscale possibile. Forse il punto di forza di questa riuscita – che non é perfetta, sia ben chiaro –, è il “fattore fiducia”, così necessario alla salute di una economia, forse il piú importante in questo Paese che cresce senza dimenticare che é bene assicurare il benessere di tutti e non solo di alcuni.
Dopo la Cina, al secondo posto del ranking, anche il Brasile sarebbe dunque in grado di far parte del G8 e, se le cose continuano così, per il 2020 anche l’India entrerà a dar parte delle prime economie del pianeta. Questi eventi indicano che i tempi sono mutati e, come nel caso della anacronistica integrazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ancora risponde a schemi politici dell’immediato dopoguerra, la comunità internazionale é oggi chiamata ad adeguare gli strumenti e gli ambiti nei quali prendere le decisioni di portata globale.
Se ciò avvenisse con criteri di maggiore democraticità, anziché in base ai rapporti di forza, sarebbe meglio. Di per sé, le dimensioni economiche non dovrebbero essere l’unico requisito, così come nel G8 a suo tempo l’inclusione della Russia rispose più a criteri politici che economici.
In tal senso, India, Sudafrica, Nigeria, Indonesia e Messico potrebbero dunque cominciare ad essere presi in maggiore considerazione. Lo dice una mutata realtà, e la politica non può non tenerne conto.

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