L'inquinamento ha il suo mercato. Il capitalismo, che nell'ultima crisi finanziaria orginatasi negli Stati Uniti ha dimostrato aver superato ogni limite in materia di etica e di aviditá, non finisce di sorprendere. Almeno gli ignoranti come me. Martín Caparrós, scrittore argentino, riporta nel suo recente libro "Contra el cambio" il curioso -ma poi non tanto- "mercato" delle emissioni contaminanti di CO2 che starebbe per fatturare intorno ai 1.200 miliardi di dollari all'anno. In base al Protocollo di Kyoto (ormai superato e insufficiente, ma questo é un altro tema) ogni paese ha assegnata una quota di emissioni di CO2. Nazioni meno sviluppate o interessate all'affare, cosa fanno?: emettono meno della quota assegnata e la differenza la vendono - grazie all'intermediazione di finanziarie come la ineffabile JP Morgan - nel mercato dei crediti di carbonio. Tale quota viene poi ricomprata da imprese del mondo industrializzato che cosí acquistano il "diritto" a contaminare. La creativitá dei manager di questa "alta finanza" le pensano tutte. Anche quella di comprare 10 milioni di forni ecologici che emettono due o tre tonnellate meno di CO2 all'anno in paesi come Ghana, Kenia, Uganda, per poi acquistare i titoli di quelle emissioni da rivendere a 10-15 dollari. Ossia, investendo 50 milioni di dollari in forni ecologici, ci sarebbe da spartirsi da 200 a 450 milioni di dollari. Niente male come affare. Peccato che di mezzo ci sia il nostro ambiente in quanto bene comune destinato a tutti. Come i vati della crisi statunitense, anche questi magari riceveranno premi e riconoscimenti o la copertina di qualche settimanale di spicco. Tanto, eventualmente, la crisi viene dopo. Vanno tenuti occhi ed orecchie aperte!
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