martes, 31 de enero de 2012

Falkland o Malvine?

Questo arcipelago sito ai confini del mondo è ancora conteso dalla Gran Bretagna e l’Argentina. Difficile che motivi nuovi conflitti, ma superare la disputa aiuterebbe a migliorare i rapporti tra due popoli.

Le imbeccate reciproche tra le diplomazie di Londra e di Buenos Aires sono ultimamente se non all’ordine del giorno, quasi. La questione è quella di sempre. L’Argentina non tralascia occasione per ribadire il reclamo della sua sovranità sulle isole Malvine. Il governo di Sua Maestà non ha intenzione alcuna di riconoscerla.
A suo tempo le Nazioni Unite avevano auspicato che i due Paesi arrivassero a una definizione della questione nel rispetto degli interessi degli abitanti delle isole. Purtroppo però il triste e folle episodio della guerra per le isole scatenata durante l’ultima dittatura argentina, svoltasi durante l’autunno australe del 1982, avendo per teatro precisamente il conteso arcipelago, oltre a provocare una inutile carneficina da entrambe le parti, ha messo in congelatore le possibilità di una soluzione negoziata.
Ma di chi sono le isole Malvine? Sì, Malvine, secondo la dizione spagnola che, peraltro prende origine dai marinai di Saint Malo, malouines, che erano soliti fare scalo nelle isole. Il diritto internazionale in materia suole ricorrere in prima istanza agli avvistamenti cristallizzati in seguito nelle carte nautiche per stabilire il diritto che scaturisce dallo scoprimento di un territorio. Ma qui bisogna ritornare indietro nel tempo per ricordare che la questione venne definita col trattato di Tordesillas sancito nel 1494 tra Fernando e Isabella re di Castilla ed Aragon ed il re Giovanni II del Portogallo e arbitrato da papa Alessandro VI. Il trattato stabiliva le rispettive aree di influenza della corona spagnola e quella portoghese rispetto al nuovo mondo. Erano passati appena due anni dall’arrivo di Colombo in America. L’Atlantico sud apparteneva chiaramente all’area di influenza della corona spagnola. Anche se non si sa con certezza chi avvistò per primo le isole, fu in ogni caso prima del 1592, il che mette in fuori gioco ogni altra teoria al riguardo dato che esistono almeno 30 carte geografiche precedenti a tale anno che indicano la scoperta e la registrazione delle isole. L’attenzione britannica per le isole sorge nel secolo XVIII, quando per continuare le azioni di disturbo nei confronti degli spagnoli lungo le coste del Cile, la flotta britannica cercò un riparo sicuro alle navi che fossero stare ricacciate dalle  tempestose acque che all’altezza del Capo Horn rendono improbo il passaggio dall’Atlantico al Pacifico. Nel 1770 Madrid ordinò alle autorità di Buenos Aires di provvedere allo sgombero dell’insediamento britannico nelle isole, cosa che venne eseguito prontamente. Ne sorse una questione che, per quieto vivere ed anche nel dubbio di non avere la forza di difendere il proprio diritto, alla fine Madrid concesse ai britannici l’uso delle Malvine ma lasciando ben in chiaro e documentato che ciò non inficiava in alcun modo la sovranità della corona spagnola sull’arcipelago. Tale diritto, ovviamente, venne trasmesso anche nella fase di secessione degli stati dell’ America del Sud dalla casa dei Borboni durante la prima metà del 1800, quando poco a poco si costituirono Argentina, Cile, Perù, Colombia, ecc.
Oggi la questione è diventata più complessa.
Sebbene il Foreign Office abbia ammesso di non possedere argomenti di peso per rivendicare la sovranità sulle isole, uno degli effetti del conflitto del 1982 fu quello di concedere la cittadinanza britannica ai kelpers, gli abitanti dell’arcipelago. Il che oppone una seria difficoltà a un argomento del governo di Sua Maestà che fa leva sul diritto all’autodeterminazione dei popoli. Infatti, dato che si tratta di cittadini britannici, i kelpers non possono far ricorso a questo diritto, ossia, non sono parte in causa. Da parte loro, gli isolani non hanno la benché minima intenzione di appartenere all’Argentina, per questioni culturali, data la loro discendenza britannica, soprattutto scozzese, e anche per ragioni di maggiore stabilità economica del Regno Unito. Il reddito procapite dei kelpers è di 28.000 dollari l’anno, uno dei più alti al mondo e ciò si deve ai benefici derivanti dalle concessioni di diritti di pesca del calamaro atlantico nelle acque della zona, oltre ai proventi provenienti dall’allevamento di ovini, della renna e della lana ed in parte all’agricoltura. La possibilità di rinvenire giacimenti petroliferi, attualmente sono in corso trivellazioni, ha aggiunto non poca quota di tensione nelle relazioni tra Buenos Aires e Londra, ma aumenterebbe la ricchezza dei 3000 abitanti delle Malvine che oggi si sentono protetti dalla importante base militare installata nell’arcipelago.
Una escalation armata della contesa sembra proprio da escludersi, pertanto la questione dovrebbe restare nell’ambito diplomatico in ogni caso con qualche corto circuito verbale. Non è da escludersi, dato che in questa fase storica siamo in piena corsa alle risorse energetiche da parte delle grandi potenze, tra cui e in prima linea il Regno Unito. Ovviamente, se si vuole arrivare a un qualche risultato, le buone maniere sono d’obbligo lasciando da parte gli eccessi verbali così frequenti tra le autorità argentine, non sempre dotate di flemma britannica. Ciò nonostante, andrebbe auspicata la modifica dello status giuridico di questo residuo imperialista, che fa a pugni con le idee di cooperazione tra popoli, garantendo ai kelpers una autonomia politica e amministrativa consolidata negli anni ed all’Argentina una sovranità i cui vantaggi fanno parte di criteri di elementare buon senso. Il diritto, anche quello internazionale, parte sempre da li.

Caspio: mare o lago?


Non è ancora stato definito lo status giuridico di questo bacino interno, il più grande del mondo, ricco di petrolio e di gas.

Un altro degli scenari del grande gioco e dove si gioca la partita dello sfruttamento e del trasporto di petrolio e gas è quello del bacino del Mar Caspio. Vi si affacciano: Russia, Iran, Azerbaigian, Turkmenistan e Kazakhstan e si stima che contenga il 3% delle riserve mondiali di greggio ed il 4% di quelle di gas.
Si tratta del più esteso bacino di acque salate del mondo, con i suoi 371.000 km2 di superficie, lungo 1200 km e largo al massimo 400 km circa. Riceve acqua da fiumi come il Volga e l’Ural ma non possiede un emissario (tecnicamente è un bacino endoreico).
Una prima questione riguarda precisamente la sua natura geografica e può dare adito a tensioni. Infatti, se lo status di questo bacino venisse definito come lago reggerebbero le norme del diritto internazionale consuetudinario, mentre nel caso lo si riconosca come un mare, sarebbe vigente il diritto marittimo internazionale. Durante i secoli la Russia zarista e la Persia, e successivamente l’Unione Sovietica e l’Iran, avevano risolto attraverso trattati lo sfruttamento delle acque pescose e delle riserve naturali. Attualmente, infatti, i due Paesi hanno interessi coincidenti con importanti scambi commerciali. Mosca spesso non ha preso parte alle manovre volte a isolare politicamente l’Iran.
Dopo lo scioglimento della URSS la questione si è fatta più complessa dato che sono apparsi nuovi Stati rivieraschi: Azerbaigian, Kazakhstan e Turkmenistan, i quali rivendicano altri criteri per la suddivisione dell’uso delle acque e dei fondali, considerando che quelli vigenti non li beneficiano. La proposta iraniana di un uso in condominio non è accettata da tutti, i russi propongono di risolvere di volta in volta i le singole questioni, stabilendo acque territoriali e accordando lo sfruttamento del resto dello specchio d’acqua, mentre i fondali andrebbero suddivisi tra i cinque Paesi rivieraschi. Gli altri tre Paesi, con qualche differenza, accetterebbero una definizione di mare chiuso assegnando con precisione i fondali sulla base delle linee mediane.
Finora non ci sono state grosse tensioni sul tema ed è probabile che, se non intervengono ulteriori fattori esterni, la questione mantenersi in equilibrio o anche giungere a una soluzione. Ma bisogna tenere conto dello scenario generale della produzione di idrocarburi. Mentre la domanda appare in aumento, grazie alla crescita di Cina e India in modo speciale, l’offerta produttiva non è detto che segua questa tendenza, semmai il contrario. Per alcuni il 2014 dovrebbe essere l’anno picco della curva di produzione, oltre al fatto che non è detto che sia possibile aumentarla dato che nel Golfo Persico si lavora da tempo a pieno ritmo. Ciò già da tempo ha fatto sì che siamo entrati in una corsa per il controllo della produzione greggio o delle sue vie di trasporto (vedi caso Iraq e Afghanistan), che cerca di stabilire egemonie su scala globale o regionale. In tal senso, ad esempio, la Cina è passata da 1,7 milioni di barili di crudo al giorno nel 1980, a 7,4 milioni nel 2006. Oggi il Paese asiatico è, ben lungi dall’aver raggiunto il suo picco di sviluppo, assorbe il 10% della produzione giornaliera di greggio. Cosa accadrà se in materia di consumi anche un colosso come l’India aumenterà il suo fabbisogno di energia?
Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, mentre la neonata Comunità di Stati indipendenti era ancora in stato confusionale, gli Stati Uniti elaborarono una strategia destinata a soppiantare l’egemonia russa nel trasporto del greggio. Washington patrocinò l’idea di un oleodotto che dal Mar Caspio evitasse di passare per la Russia. Nacque così il BTC, l’oleodotto che partendo da Baku in Azerbayan, passa da Tblisi in Georgia per poi toccare la sponda mediterranea di Ceyhan in Turchia (il nome deriva proprio dalle iniziali delle tre città interessate). Un investimento da 4 miliardi di dollari che fa leva su Paesi amici e in competenza con la Russia. Ci volle la spregiudicatezza, la capacità e la determinazione di Putin per rimettere nelle mani dello Stato, prima, il settore petrolifero e per riprendere, poi, il potere di iniziativa per evitare di essere politicamente accerchiata da alleati della Casa Bianca. Ma quali reazioni potrebbe motivare la realizzazione del Nabucco, un gasdotto che la Russia considera contrario ai suoi interessi, dato che il suo tracciato è stato disegnato anch’esso per evitare di passare dal suo territorio?
Se a tutto ciò aggiungiamo la prossimità del bacino del Caspio all’area del Caucaso, altamente instabile, si comprende quanto la prudenza dovrebbe reggere le decisioni geopolitiche in questa parte dello scacchiere mondiale. 
In questo, come in molti altri casi, in realtà dovrebbe primeggiare il comune interesse della gestione delle risorse energetiche che si annunciano sempre più scarse in un mondo che ne ha sempre più bisogno. Forse e su temi del genere che mancano visioni più lungimiranti.

viernes, 27 de enero de 2012

Hormuz, uno stretto troppo stretto

Dietro la tensione sullo stretto dal quale passa il 20% del greggio mondiale, aleggia la questione del programma nucleare del governo di Teheran. Ma è tutta la regione che rivela un alto livello di instabilità.

L’applicazione di dure sanzioni nei confronti dell’Iran, che prevedono l’embargo nell’acquisto di grezzo del Paese asiatico da parte dei 27 stati membri della UE, potrebbe acuire la tensione già esistente nello stretto di Hormuz. Le autorità iraniane hanno infatti minacciato di chiudere il traffico marittimo in questo punto nevralgico per le rotte delle petroliere. Di li passa infatti il 20% dei quasi 80 milioni di barili di greggio che vengono commerciati ogni giorno sul pianeta.
La geografia della zona aggiunge un elemento ulteriore di complessità al tema. Sebbene è vero che le acque dello stretto sono sotto la sovranità dell’Oman e dell’Iran, in realtà, quasi tutti i punti di accesso allo stretto si trovano in acque iraniane, mentre la maggiore parte delle vie d’uscita si trovano in acque territoriali omaniti. Pertanto, è impossibile transitare per lo stretto senza entrare in acque sotto la sovranità dell’Iran. Sebbene ci si appelli al diritto dei mari che figura nella terza parte della Convenzione delle Nazioni Unite, l’Iran (ma anche gli Stati Uniti, non hanno ratificato questo trattato).
Domandiamo a Pasquale Ferrara, esperto in politica internazionale, se si tratta solo di una questione di diritto marittimo internazionale.

“Ad Hormuz è in gioco qualcosa di più del diritto. Si tratta di un principio politico fondamentale che fa parte delle relazioni internazionali da almeno a un secolo a questa parte, quello della libertà dei mari. E questo indipendentemente dagli impegni assunti, esistono principi che valgono erga omnes, che in questo caso riguardano l’accessibilità dell’alto mare. Non bisogna dimenticare che proprio la violazione di questo principio di alcune guerre. L’entrata in guerra degli USA nella primo conflitto mondiale fu motivato proprio dalla violazione della neutralità in alto mare, in altre parole il diritto di navigazione ed il passaggio inoffensivo davanti alle coste. Esiste però un braccio di ferro di tipo politico e mi pare che l’Iran si stia spingendo in un terreno scivoloso”.

Effettivamente, la questione di fondo è il programma di armamento atomico dell’Iran. Uno si domanda anche qual è il problema che questo Paesi si doti di armi atomiche visto che sia il Pakistan che Israele, suoi vicini, sono entrambi dotati di decine, se non centinaia, di ordigni nucleari.

“Il tema concerne la credibilità del regime giuridico del regime giuridico della non proliferazione. Gli stati che hanno sottoscritto apertamente il Trattato di Non Proliferazione (TNP), devono rispettarne le norme, tra cui quella della la trasparenza, permettendo ispezioni, verifiche, ecc.
Esiste poi la questione della coerenza in politica internazionale della non proliferazione di queste armi al di fuori del TNP. Esistono Stati che non fanno parte del TNP, altri come la Corea del Nord ne sono usciti, c’è una diversità di situazioni giuridiche di cui bisogna tener conto.
Tuttavia il tema fondamentale è quello delle armi nucleari, così come siamo riusciti politicamente a proibire le armi batteriologiche e chimiche o le mine antiuomo, pure poste fuori legge, bisognerebbe arrivare a fare lo stesso con le armi nucleari. E questo è un tema che va al di la della questione  iraniana”.

Forse andrebbe anche rivista la politica nei confronti dell’Iran, dato che sentirsi minacciati potrebbe avallare il ragionamento in base al quale dotarsi di arme nucleari è un deterrente valido per evitare invasioni, come quella dell’Iraq o dell’Afghanistan.

“Questo è un argomento in parte fondato ed in parte usato strumentalmente, le due versioni sono vere. Il tema è che l’area geografica nella quale si colloca l’Iran è estremamente instabile, e questo crea la peculiarità del caso del suo programma nucleare. Pertanto, c’è bisogno di un approccio complessivo del problema della pace nella regione. Ad esempio non esiste nessuna istituzione di sicurezza collettiva dei vari Paesi e pertanto l’area rimane lasciata a se stessa, il che amplifica i problemi politici in modo esponenziale”.

martes, 17 de enero de 2012

Isole Spratly, inospitali ma contese

In Occidente delle isole Spratly ne sanno qualcosa gli esperti in geopolitica e quanti, pochi, si interessano della materia. Eppure siamo di fronte a uno dei luoghi geografici strategici del pianeta, come lo stretto di Ormuz oppure i canali di Suez e del Panamà.
Ma perché è così importante questo pugno di isole remote, sconosciute, disabitate e, per giunta inospitali? Sembra che questo arcipelago composto da oltre 650 isole, isolotti, e barriere corallifere, la cui superficie supera i 400 mila kilometri quadrati, sito sul 10° parallelo del Mar Cinese Meridionale, esattamente tra Vietnam e Filippine, contenga nelle sue acque pescose una immensa riserva di petrolio e di gas. C’è chi dice che siano 50 miliardi di barili, chi 150 miliardi. Per alcuni siamo di fronte a riserve paragonabili a quelle dell’Arabia Saudita, per altri sono molto meno, forse la decima parte. Ma anche in tal caso si tratterebbe di una quantità consistente. Le Filippine, infatti, estraggono da una regione confinante con le Spratly il 15% del greggio che consuma il Paese.
Inoltre la vicinanza delle isole allo stretto di Malacca, punto di passaggio obbligato tra l’Oceano Indiano ed il Pacifico, rende questa zona di altissima importanza strategica: da li passa il 50% delle navi portacontainer e delle petroliere del mondo. Si comprende dunque il motivo per il quale le Spratly da anni siano contese da Vietnam, Cina, Filippine, Malaysia, Taiwan e Sultanato di Brunei. Questa contesa negli ultimi 30 anni ha avuto di tanto in tanto momenti di tensione, gli ultimi episodi, per fortuna non andati oltre alcune dure proteste diplomatiche, sono accaduti nel 2011. E  meno il Sultanato di Brunei ciascuno dei contendenti ha fatto ricorso alle sue forze navali per assicurarsi il controllo di alcune fette dell’arcipelago, a volte qualche atollo o appena delle scogliere. Ma intanto tutto serve per assicurare di non restare fuori dalla spartizione, semmai ci sarà.
Vietnam, Filippine e soprattutto Cina fanno la parte del leone. Inoltre, la Cina col Vietnam disputa la sovranità anche delle isole Paracelso, appena un po’ più a nord, manco a dirlo anch’esse ricche di petrolio. Ma è il “dragone asiatico”, la Cina, a destare le maggiori preoccupazioni dato che Pechino sembra decisa a voler imporre la sua volontà sia con le buone maniere che con metodi più sbrigativi. L’aumento delle spese militari infatti presto renderà quasi impossibile opporsi alle decisioni delle autorità di Pechino che, nel frattempo, ha ribattezzato col nome cinese di Nasha l’arcipelago. E ciò nonostante gli accordi che nel 2002 hanno stabilito un codice di condotta nato per confinare la questione all’ambito politico, che però non obbliga le parti. Insomma, ambiguità, come quelle che scaturiscono dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto Marittimo (Unclos, dalla sua sigla in inglese) difficili da applicare con certezza anche in questo caso, soprattutto quando si tratta di stabilire con precisione la Zee, la zona economica esclusiva, il raggio di 200 miglia marine dalla propria costa.
Potrebbe questa zona trasformarsi in un foco di tensioni internazionali dato il suo valore economico e strategico? Difficile dirlo. La storia direbbe di no. Ed anche la politica cinese lo direbbe. Pechino è responsabile in gran parte della crescita che sta beneficiando regioni come il Sudamerica grazie a una politica intelligente e di mutua convenienza. Inoltre è ancora vigente la teoria di Deng Xiaoping: tao guang yang hui (nascondi le tue capacità e guadagna tempo).
Ma le circostanze possono sempre cambiare. Quanti, infatti, avrebbero scommesso che la Libia sarebbe stata il motivo per un intervento militare le cui motivazioni umanitarie non reggono un’ analisi spassionato della questione. E ciò nonostante il ritorno di Gheddafi nel consesso delle nazioni, accompagnato addirittura da un patto di amicizia con uno dei membri del G8, l’Italia. Già, qualcosa nel frattempo era cambiato. La sete di petrolio della Cina, una sete difficile da appagare dati i ritmi di crescita del gigante asiatico, spinge Pechino a fare incetta costantemente di fonti di approvvigionamento energetico. La Casa Bianca, a sua volta, ha deciso che se vuole contenere la crescita della Cina ed evitare di trovarsi di fronte una superpotenza globale deve in qualche modo far pressione sul suo tallone d’Achille, appunto, il fabbisogno di combustibili. E la Libia correva il rischio di rientrare tra gli obiettivi della politica di espansione cinese in Africa. Non può non essere tenuta in conto questa prospettiva quando analizziamo i fatti prodottisi in sulle rive del Golfo della Sirte proprio a partire dal gennaio scorso.
Tornando al Mare Cinese Meridionale la domanda ancora non ha una risposta. Il fabbisogno cinese in materia di combustibili è in crescita. E non sono molte le aree del pianeta dotate di ingenti risorse non rinnovabili, considerando poi che l’uso di quelle rinnovabili è lontano da apparire considerevole al punto da mutare gli attuali equilibri geopolitici.
Bisogna allora chiedersi cosa accadrà se per una ragione o un'altra il fabbisogno cinese diventasse così impellente da originare decisioni basate sui rapporti di forza? Ed anche, dati gli antecedenti recenti come l’invasione dell’Irak e l’attuale presenza di forze alleate in Afghanistan, sempre meno giustificabile, sulla base di quali argomenti giuridici sarebbe possibile impedire alla Cina di definire una volta e per tutte a sua vantaggio la sovranità sulle isole Spratly? Non dimentichiamo che con inquietante pragmatismo a partire dal 11 settembre 2001 la Russia ebbe il “permesso” di fare “con comodo” in Cecenia pur di presentare la sua guerra come lotta contro il terrorismo mondiale. E Putin non uso certo i guanti di velluto. Questi argomenti, che giammai sarebbero esposti in un pubblico consesso, sono però a conoscenza delle diplomazie che sanno di cosa si parla off the record tra i capi di stato e di governo.
E comunque molto probabile che prevalga la saggezza e si arrivi a una equa ripartizione tra i Paesi che reclamano la sovranità sulle Spratly. Ma ciò non avviene sempre, lo insegna la storia. La prudenza suggerisce pertanto di non fornire alla scelleratezza dei guerrafondai argomenti per possibili casus belli. Sarà giunta l’ora di superare la logica dei rapporti di forza per privilegiare il terreno più squisitamente politico? L’interdipendenza che ogni giorno ci ricorda quanto dipendiamo l’uno dell’altro sembra suggerirlo.

martes, 10 de enero de 2012

Il fattore fiducia

 Brasile sesta potenza economica mondiale, ma senza dimenticare distribuzione del reddito e interventi a favore dei settori più deboli 
 
Quando nel 2002 Luiz Inacio Lula da Silva vinse le elezioni presidenziali, “l’indice di rischio Paese”, strumento col quale si misura l’affidabilità di una economia nel far fronte ai propri debiti (un po’ come oggi lo spread), schizzò in alto, raddoppiando. Vennero vaticinati cataclismi finanziari, immani tragedie economiche che avrebbero fatto piombare il Brasile nell’abisso e nella sovietizzazione della sua economia.
I mercati finanziari, quando si tratta dei propri esosi interessi, sono conservatori, pessimisti e spesso, troppo spesso, inattendibili Cassandre, perché sordi e ciechi. Infatti, dopo dieci anni di gestione Lula – ed oggi sotto la presidenza di Dilma Roussef, in linea di continuità con quella del vecchio sindacalista – secondo l’istituto di ricerca britannico Cebr il Brasile é gia la sesta economia del pianeta, dopo aver scalzato Italia e Gran Bretagna, con un Pil di 2.400 miliardi di dollari.
Un risultato notevole: durante l’ultima decade sono stati creati 15 milioni di posti di lavoro, 28 milioni di cittadini sono usciti dalla povertà e la metà dei 190 milioni di abitanti appartiene oggi alla classe media. Quest’ultimo dato è in assoluta controtendenza, dato che quasi ovunque é proprio la classe media il settore che si assottiglia sempre più. Nel frattempo il governo brasiliano va avanti con il piano di investimenti, fino al 2014, per 526 miliardi di dollari in infrastrutture, istruzione, reti di distribuzione energetica, edilizia popolare.
La ricetta che oggi nessuno si sente più di giudicare come populista é molto semplice e centralizza la ridistribuzione del reddito e l’intervento a favore dei settori più deboli, pur appoggiando la crescita economica, la libertà di impresa e il maggiore rigore fiscale possibile. Forse il punto di forza di questa riuscita – che non é perfetta, sia ben chiaro –, è il “fattore fiducia”, così necessario alla salute di una economia, forse il piú importante in questo Paese che cresce senza dimenticare che é bene assicurare il benessere di tutti e non solo di alcuni.
Dopo la Cina, al secondo posto del ranking, anche il Brasile sarebbe dunque in grado di far parte del G8 e, se le cose continuano così, per il 2020 anche l’India entrerà a dar parte delle prime economie del pianeta. Questi eventi indicano che i tempi sono mutati e, come nel caso della anacronistica integrazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ancora risponde a schemi politici dell’immediato dopoguerra, la comunità internazionale é oggi chiamata ad adeguare gli strumenti e gli ambiti nei quali prendere le decisioni di portata globale.
Se ciò avvenisse con criteri di maggiore democraticità, anziché in base ai rapporti di forza, sarebbe meglio. Di per sé, le dimensioni economiche non dovrebbero essere l’unico requisito, così come nel G8 a suo tempo l’inclusione della Russia rispose più a criteri politici che economici.
In tal senso, India, Sudafrica, Nigeria, Indonesia e Messico potrebbero dunque cominciare ad essere presi in maggiore considerazione. Lo dice una mutata realtà, e la politica non può non tenerne conto.